#CuriamociDiNoi, tappa in Toscana

Oltre 170 km, 6 tappe che hanno toccato una casa della salute e 5 presidi ospedalieri, tre incontri multi-disciplinari, sette reparti visitati, diverse decine di lavoratori ascoltati. Questi sono solo alcuni dei numeri della prima parte del tour toscano fatto insieme al Segretario Fp Cgil Michele Vannini e al coordinatore nazionale Fp Cgil degli infermieri, Giancarlo Go, che ha raccolto testimonianze toccanti direttamente dal cuore pulsante del sistema sanitario a Firenze, Empoli e Pistoia.

Primo giorno di tour, destinazione Ospedale San Giuseppe di Empoli. Il pulmino della FP è partito. La missione? L’ascolto dei lavoratori. Quali difficoltà vivono? Cosa chiederebbero per migliorare il servizio?

La prima tappa è il Pronto Soccorso, qui il ritmo frenetico e le sfide quotidiane si svelano attraverso gli occhi di Davide, il cui compito di triagista si trasforma in una vera e propria prova di resistenza fisica ed emotiva, aggravata dall’allungarsi delle liste di attesa che hanno ripercussioni pesanti sugli ospedali e portano a un aumento degli accessi.

Michela, infettivologa, denuncia la mancanza di personale e un’assenza del territorio che non permette di somministrare antibiotici sul territorio, almeno all’interno della Regione Toscana, che potrebbero permettere dimissioni più rapide e la gestione domiciliare di alcuni pazienti”.

Nel frattempo, Sabrina, infermiera, porta alla luce il grido silenzioso delle donne over 50 nel settore sanitario, sempre più stanche a causa di carichi che non tengono conto dell’invecchiamento medio della professione infermieristica e dell’innalzamento dell’età pensionabile. Questo sovraccarico fisico e mentale è aggravato dalla necessità, molto comune, di ricoprire un lavoro di cura e/o di caregiver anche a casa dopo le ore lavorative.

Alexa rivela i drammi dei contratti interinali senza formazione adeguata, mentre Elisa, infermiera, getta luce sulle difficoltà del territorio, dalle risorse esigue alla mancanza di coordinamento.

Salendo nei reparti incontriamo Stefania, coordinatrice infermieristica, che con orgoglio ci parla della sua professione e del Progetto AMA (Area Medica di Ammissione), un modello organizzativo di accoglienza dei pazienti con destino nei reperti medici (sperimentato dal 2022 dall’Azienda Usl Toscana Centro negli ospedali di Prato ed Empoli) che ha permesso di supportare le carenze organiche di personale e ridurre il sovraccarico del pronto soccorso. Un progetto ambizioso che però si scontra con la progressiva riduzione di organico aggravata da blocchi del turnover che come ribadisce Niccolò, giovane infermiere,costringe tutto il personale a turni estenuanti che non valorizzano la professionalità infermieristica e non sono gratificati e supportati da stipendi all’altezza”.

Il giro prosegue nei locali del Spdc, il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e cura dal quale emergono storie di violenza e disagio mentale, dipinti con crudo realismo da Elvira, Elisa, Laura e Cristiana.

In questo reparto le criticità principali sono relative alla sicurezza e alle aggressioni al personale sanitario, un fenomeno in progressivo aumento che, a livelli più o meno gravi, hanno vissuto sulla propria pelle tutte le persone che incontriamo.

Per Elvira, Oss, “la salute mentale va valorizzata, mentre spesso viene visto come un reparto di residuo dove arriva personale che per diverse ragioni (limitazioni fisiche come ernie o altri problemi fisici, età avanzata, corporature più minute) non è adatto a lavorare in reparto”.

Problemi simili vengono denunciati da Laura, Oss al Rems Empoli, che ci spiega come il drastico aumento negli ultimi mesi dei pazienti tossicodipendenti abbia aumentato i casi di violenza e aggressioni al personale, nonostante l’introduzione di “cicalini”, un sistema di allarme che avvisa le guardie giurate, che però hanno grosse limitazioni prima di intervenire: “siamo imprigionati in un carcere senza guardie dove noi lavoratori ci sentiamo spesso lasciati soli”.

All’ospedale di Careggi la disperazione dei lavoratori trova eco nelle parole di Cecilia, infermiera storica di oncologia, che denuncia problemi di organizzazione, sovraccarico di lavoro e mancanza di addestramento, che alla lunga portano a una minore solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, che si sentono sempre più stressati.

Sull’esigenza di investire di più sulle persone interviene anche Francesca, infermiera con un’esperienza ultra ventennale all’unità spinale del Cto: “Qui arrivano ragazzi giovani, preparati e con voglia di fare, se io li butto allo sbaraglio li brucio. Al di là del fatto che potrebbero combinare degli errori e rovinarsi la carriera, vanno via e scappano, non capendo gli aspetti belli del lavoro in questo reparto”.

Il tema dei giovani e del benessere lavorativo è ripreso anche da Francesco, infermiere, che con preoccupazione è allarmato dal fatto che “senza politiche adeguate la popolazione di lavoratori giovani che entra a lavorare oggi sarà, nel medio periodo, ovvero tra 15/20 anni, completamente stremata”.

Infine, Leonardo, tecnico, getta uno sguardo amaro sul declino dell’area tecnica, segnata dalla perdita progressiva di competenze e dall’esternalizzazione dei servizi.

Sul tema delle aggressioni, Patrizia, infermiera, Rsu Fp Cgil, ci informa che grazie alla contrattazione integrativa sono riusciti a promuovere nuove misure per contrastare il fenomeno, come ad esempio l’eliminazione dei nominativi dalle divise nei reparti più a rischio, sostituendoli con dei codici identificativi.

Finito il colloquio con le ultime lavoratrici è il tempo di lasciare Firenze per dirigerci verso l’ospedale San Jacopo a Pistoia.

All’interno della bellissima sede del sindacato, che si trova al centro della struttura, ci accolgono una dozzina di dipendenti rappresentanti delle diverse professioni sanitarie e provenienti da diversi reparti del presidio ospedaliero. Dai racconti emergono nuovamente le difficoltà riscontrate nelle altre tappe: dalle carenze organiche alla mancata valorizzazione professionale fino al ruolo del sindacato. A prevalere sono però i temi legati alla difficoltà di conciliare i tempi di vita e lavoro, alla mancanza di risorse non solo di organico ma anche strutturali, alla necessità di agevolare la mobilità del personale anche semplicemente all’interno della stessa azienda fino ad arrivare alla necessità di rimettere al centro l’importanza del lavoro pubblico.

Infatti tra le grida di sofferenza emerge in maniera corale l’orgoglio per il proprio lavoro e per contribuire a mandare avanti un sistema sanitario nazionale che nonostante tutti i problemi continua a garantire livelli alti di cura. “Al pronto soccorso su 10 codici rossi, 9 e mezzo li salvano. È da questa considerazione che dobbiamo partire e farlo capire anche ai cittadini che spesso non si rendono conto del grande lavoro che sta dietro al nostro operato”.

Sull’imbrunire ci dirigiamo verso l’ultima meta della giornata: il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Maria Nuova, il presidio ospedaliero più antico nel cuore di Firenze.

La serata tranquilla ci permette di ascoltare le voci di alcuni lavoratori, da Francesco, medico innamorato del suo lavoro, fino a Marco, giovane triagista che, con passione, ci racconta le difficoltà e il senso di responsabilità che ogni volta si sente addosso quando attribuisce un codice numerico di priorità agli utenti che visita.

La serata è terminata, ma prima di andare a riposare incontriamo Zia Caterina, una vera istituzione fiorentina, la tassista che con il suo coloratissimo Milano 25 è diventata motivo di speranza, accompagnando all’ospedale pediatrico Meyer i bambini malati che devono fare le terapie. “Dobbiamo difendere assolutamente la sanità pubblica”, ci dice mentre sta rincuorando una turista straniera che ha accompagno al pronto soccorso per una brutta distorsione. Ci confida che dopo che le è stata diagnosticata una malattia autoimmune si è resa conto che deve diventare una missione di tutti i cittadini quella di “valorizzare il ruolo di tutti gli operatori sanitari per favorire l’umanizzazione delle cure e il rapporto con i pazienti”.

Il secondo giorno inizia presto con la visita alla Casa della Salute delle Piagge, un quartiere della periferia ovest di Firenze.

Chi conosce la città sa quanto questo presidio sia importante per un territorio che negli anni è balzato all’onore della cronaca per i fenomeni di criminalità e di emergenza sociale e pian piano sta cercando di riscattarsi, offrendo progetti e servizi che riducano la marginalità e favoriscano l’inclusione sociale.

In questa struttura curata e ben tenuta troviamo Cecilia, medico di famiglia, che ha deciso volontariamente di ricevere all’interno della struttura, pagando un affitto e “andandoci in perdita”, solo perché è fortemente convinta che la presenza medica in queste strutture pubbliche dovrebbe essere il modello e non l’eccezione.

“Se potessi, entrerei subito nel sistema pubblico”, ci confessa in maniera sincera, “la figura del medico è cambiata, non è più quella di venti anni fa quando erano tutti uomini, vecchi e con a casa una moglie che non lavorava. Adesso siamo quasi tutte donne, abbiamo figli, tempi di vita/lavoro da conciliare e stare all’interno di una struttura come questa ci fornisce più tutele e sicurezza.

Ci congeda dicendoci con una certa amarezza che nonostante sia una fervente sostenitrice di un modello di sanità pubblica integrata sul territorio che garantisca una reale presa in carico del cittadino e fornisca cure maggiormente accessibili e di qualità, “senza aiuti concreti, la scelta di restare qui sul lungo periodo non può essere sostenibile e con grande dispiacere anche io prima o poi dovrò arrendermi e spostarmi”.

Sul tema della concreta continuità assistenziale ospedale-territorio interviene anche Ilaria, infermiera, che ci racconta delle difficoltà dell’assistenza infermieristica territoriale e delle problematiche di coordinamento per la presa in carico di pazienti dopo le dimissioni dalle aziende ospedaliere. L’appello corale alla Fp è di potenziare e attuare in maniera concreta l’infermieristica di famiglia, una delle principali sfide per migliorare la salute dei cittadini.

Il tour prosegue fino alle stanze del “Percorso Verde”, un servizio destinato a ragazzi con problematiche psichiche e sociali. Daniela, educatrice professionale, ci racconta con orgoglio le attività e i buoni risultati che sono stati ottenuti, ma ci rivela anche la paura che la mancanza di spazi adatti e il pensionamento di una buona parte del personale possano mettere fine a breve a questo progetto unico.

È tempo di raggiungere l’ultima tappa di questo viaggio fiorentino, l’ospedale San Giovanni di Dio che terminerà con un incontro finale multidisciplinare con altre lavoratrici e lavoratori.

Prima però c’è tempo per un viaggio all’interno del pronto soccorso (che per numeri di accessi è la seconda struttura di riferimento, dopo l’Ospedale di Careggi dell’intera area metropolitana), dove incontriamo Vanessa, coordinatrice infermieristica che ci fa strada tra i corridoi e le stanze che necessitano di urgenti ristrutturazioni, rimandate dall’avvio di un nuovo cantiere che dovrà costruire un altro edificio dove spostare un nuovo e all’avanguardia DEA. Anche se il ritardo dei lavori è fonte di preoccupazione, il personale presente è unito e preparato e, con un moto di orgoglio, ci racconta le sfide i problemi quotidiani del proprio lavoro. Dopo un passaggio nel reparto di Medicine Chirurgia, il viaggio si conclude nella Sala Muntoni, dove sono presenti anche lavoratrici e lavoratori degli appalti.

Da questi due giorni di ascolto emerge un grido d’allarme che risuona dalle trincee dei nostri ospedali: è ora di ascoltare le voci dei lavoratori, di affrontare le sfide e di investire nel futuro della sanità pubblica.

Parallelamente, siamo stati in provincia di Arezzo, dove abbiamo percorso 200 km. Abbiamo incontrato tantissime lavoratrici e lavoratori: medici, infermieri, oss, assistenti, radiologi, amministrativi e molti altri ancora.

IL RACCONTO DELLE LAVORATRICI E DEI LAVORATORI

Secondo Giulia, radiologa, per lavorare meglio e fornire prestazioni più efficienti è necessario badare al benessere degli operatori. Vivere bene significa lavorare bene.

“Troppo spesso ci ritroviamo a fare i conti con l’equilibrio vita-lavoro che va sempre più a discapito della vita fuori dall’ospedale”.

Secondo Massimo, operatore socio sanitario, invece, una delle principali problematiche è che manca una comunicazione diretta con l’amministrazione.

“Non si sa con chi parlare, è una situazione frustrante, queste USL enormi impediscono il contatto umano”.

Sabrina, infermiera, racconta con orgoglio il suo lavoro, ma avere a che fare con la salute delle persone non sempre si traduce nel riconoscimento (e quindi nella valorizzazione) dell’importanza del suo mestiere.

“Ci occupiamo delle persone a 360 gradi. Cerchiamo sempre di rendere il paziente partecipe del trattamento a cui viene sottoposto. La persona viene messa al centro. Spesso i servizi sono decadenti. Siamo considerati l’ultima ruota del carro”.

Paolo, infermiere, lancia un appello al Governo: tornare ad investire sulla sanità pubblica.

“Gli effetti devastanti dei tagli di questi anni la vivono i cittadini sulla propria pelle. Non c’è bisogno di lavorare all’interno delle strutture per capire che siamo in sofferenza”.

 

                   

 

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