Il futuro del Dap e del Dgmc. È il titolo del progetto che abbiamo inviato al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede.
Leggi in basso
Negli ultimi dieci anni il mandato affidato all’esecuzione della pena dalla carta costituzionale finalizzato a “ garantire alla collettività maggior sicurezza e favorire il reinserimento sociale del reo”, è stato messo a dura prova da una serie di scelte politiche sbagliate messe in essere dalle succedutesi compagini governative.
Normative scellerate come la Bossi-Fini in tema di immigrazione e la Fini- Giovanardi in tema di tossicodipendenza (legge dichiarata illegittima dalla corte costituzionale nel 2014) che, con il chiaro intento di utilizzare il carcere come discarica sociale, hanno rischiato di compromettere la tenuta del sistema nel suo complesso con ricadute devastanti in termini di peggioramento sia delle condizioni della vita detentiva sia delle condizioni lavorative delle diverse professionalità che nel contesto dell’esecuzione penale intra ed extra- muraria operano .
Tali scelte politiche, supportate altresì dalla richiesta dei cittadini di “maggior sicurezza”, che nell’immaginario collettivo si traduce in ”più carcere”, ha comportato nel 2011 un eccessivo incremento della popolazione detenuta che superando le 67.000 unità ha comportato un eccessivo sovraffollamento delle strutture penitenziarie del paese, fatiscenti ed inadeguate, a poter garantire alle persone detenute anche quel minimo trend di dignitosa vivibilità.
Per tale motivo la Corte europea dei diritti umani, l’8 gennaio 2013 con decisione presa all’unanimità – ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU).
Un momento particolarmente involutivo per l’istituzione penitenziaria e una vergogna per l’intero paese , ” il grado di civiltà di una Nazione si misura non dai palazzi ma dalla condizione delle carceri” (Voltaire).
Contestualmente , anche la condizione del personale penitenziario afferente il Pubblico impiego e il comparto sicurezza, ha vissuto forti criticità; nel 2009 il Governo Berlusconi portava a compimento un piano di delegittimazione e mortificazione dei lavoratori pubblici, che aveva il suo culmine nella scelta di bloccare i rinnovi contrattuali, il turn over e qualsiasi tipo di avanzamento stipendiale previsto per il personale del pubblico impiego.
I ripetuti tagli apportati alla spesa pubblica hanno ridotto, inoltre, le risorse destinate alla formazione del personale, alla ristrutturazione e messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e alla cura della salute degli operatori.
Il sistema dell’esecuzione penale era stato messo in ginocchio. I detenuti aumentavano, il personale diminuiva, i fondi per l’acquisto degli strumenti necessari a portare avanti la macchina operativa e amministrativa continuavano ad essere tagliati e il lavoro del Poliziotto Penitenziario, del Funzionario giuridico pedagogico, del Funzionario di servizio sociale e del Personale amministrativo e contabile si espletava con grande disagio.
L’impegno politico della FP CGIL, portato avanti con una mobilitazione costante ed esercitando una pressione continua sul precedente governo, per sbloccare il turn over, gli avanzamenti stipendiali e rinnovare il contratto di lavoro, ha portato ad un accordo politico, quello del 30 novembre 2016 che, oltre ad intervenire sulle retribuzioni, ha riportato al centro dell’agenda politica la contrattazione e i diritti di coloro che lavorano nella pubblica amministrazione, consentendo di rinnovare nel 2018 i contratti di lavoro bloccati da quasi dieci anni.
Con lo stesso impegno e caparbietà la FpCgil nel 2015 e 2016 ha partecipato al dibattito e al confronto riguardante il nuovo assetto organizzativo del Ministero della Giustizia che ha coinvolto tutte le articolazioni dipartimentali apportando, soprattutto al settore dell’esecuzione penale forti innovazioni dal punto di vista organizzativo.
Un nuovo modello organizzativo, dunque, che si rendeva necessario a seguito della condanna da parte della corte EDU, in risposta alla quale il governo italiano è intervenuto con una serie di misure finalizzate a riportare le condizioni detentive entro parametri di legalità, a rendere deflattiva la detenzione e a ridurre la recidiva. Obiettivi che si è inteso perseguire attraverso il potenziamento ed una maggiore implementazione delle misure alternative, nonché attraverso l’intervento normativo del 28 aprile 2014 legge 67 che ha istituito la “ messa alla prova”, ossia la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento penale per reati considerati di minore gravità, già presente per i minorenni, anche per gli adulti.
Ciò ha comportato la scissione del settore carcerario (esecuzione penale intra –muraria) che è rimasta in capo al DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), da quello dell’esecuzione penale esterna, settore quest’ultimo che è confluito nel Dipartimento della Giustizia minorile dando luogo al nuovo dipartimento DGMC , quello della Giustizia minorile e di comunità, in considerazione del fatto che il settore dell’esecuzione penale esterna doveva costituirsi come moderno sistema di probation “secondo i migliori modelli europei” e in quanto tale veniva reso autonomo dal DAP, dove per troppo tempo era stato relegato ad una dimensione secondaria.
Se da una parte le misure legislative adottate dal precedente governo per contrastare il fenomeno del sovraffollamento detentivo hanno prodotto risultati evidenti, si è passati dalle 67394 presenze del 2011 alle 52164 del 2015, il processo finalizzato al potenziamento dell’esecuzione penale esterna stenta ancora oggi a decollare e le condizioni lavorative del personale non migliorano. Altro dato che desta particolare allarme è che al 30 giugno di quest’anno il numero di detenuti presenti nelle nostre carceri è tornato a 60522 presenze, con un aumento di 1763 unità rispetto all’anno scorso, a fronte della capienza delle nostre strutture di soli 50496 posti.
Gli interventi normativi attuati a seguito della sentenza Torregiani e della condanna inflitta dalla CEDU al nostro Paese hanno portato ad una modifica del modo di lavorare della Polizia Penitenziaria intra ed extra moenia. Tale volontà si è tradotta all’interno delle mura nell’istituzione della cosiddetta “vigilanza dinamica” e all’esterno nella nascita del nuovo dipartimento della giustizia minorile e di comunità, con cui si intende potenziare il sistema dell’esecuzione penale esterna e chiamare la Polizia Penitenziaria ad espletare nuovi compiti di controllo sul territorio delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione.
Purtroppo, all’interno degli istituti, l’istituzione della vigilanza dinamica si è tradotta in un’operazione di apertura della celle che poco ha a che fare con quanto disposto dal DAP con le circolari in cui venivano definite le linee guida del progetto. Il progetto originario prevedeva, infatti, di agire per step, vista la necessità di valutare l’impatto che il nuovo metodo operativo avrebbe portato nel mondo penitenziario, avviando lo stesso nelle case a custodia attenuata e nelle case di reclusione di media sicurezza. A differenza di quanto previsto, l’amministrazione ha deciso di procedere ad una generalizzata apertura delle celle, senza raccogliere dati sui risultati raggiunti e quei dati, purtroppo, ci dicono che aumentano le aggressioni subite dal personale di Polizia Penitenziaria. Si pensi che si è passati dalle 344 aggressioni registrate nel 2013, alle 680 del 2018.
Malgrado i molteplici interventi fatti dalla FP CGIL, nessuna risposta è arrivata in materia di garanzie tangibili sui temi della sicurezza delle strutture penitenziarie e dei poliziotti, degli stanziamenti economici per poter dotare gli istituti di strumenti tecnologici di ausilio per la sorveglianza, su atti concreti che tendessero a deresponsabilizzare i Poliziotti Penitenziari in caso di eventi critici e su percorsi formativi per tutto il personale che avrebbe dovuto lavorare con il nuovo metodo operativo.
Proprio sul tema della formazione del personale si sono registrate forti criticità negli ultimi anni. Da una parte la capacità di organizzare corsi di formazione per la Polizia Penitenziaria è ridotta al minimo, spesso non si riesce neanche ad utilizzare tutti i fondi predisposti a tal fine nei capitoli di bilancio, dall’altra la carenza di personale di cui soffre il Corpo continua ad essere usata come scusa da parte dei Direttori degli istituti penitenziari per il mancato invio del personale ai corsi di aggiornamento. Da questo punto di vista riteniamo che la programmazione di un percorso stabile e strutturato di formazione e aggiornamento non sia più rinviabile e che bisogna trovare gli strumenti che consentano a tutto il personale di poter fruire del suddetto.
Anche nel settore dell’esecuzione penale esterna, a causa della grave carenza di organico, il progetto messo in campo rischia il fallimento. La pianta organica del personale di Polizia Penitenziaria è stata da prima fissata, con Decreto Ministeriale del 2013 in 45325 unità, poi ridotta a 41202 unità con un decreto del 2017 e comunque, al 30 giugno 2019, il personale amministrato risulta di 37367 unità, che non bastano neanche per garantire il mandato costituzionale all’interno delle carceri.
Tra l’altro, delle 37367 unità presenti, solo 2228 unità sono femminili, a causa di una previsione normativa, quella che impone che il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti o internati ristretti, che deve essere superata in quanto limita l’ingresso e la progressione in carriera delle donne. Si pensi che la dotazione organica del ruolo degli ispettori, che ricordiamo essere un ruolo di concetto, è composta da 3550 unità, di cui solo 450 femminili e ben 3100 maschili. Questo comporta che quando vengono predisposti dei concorsi interni per il ruolo degli ispettori, solo una minima parte dei posti viene riservata al personale femminile, che vede ridotte le proprie possibilità di accesso al ruolo. Da anni la FP CGIL chiede di unificare le dotazioni organiche, superando la distinzione di genere, cosa tra l’altro già prevista per la Polizia di Stato, ma anche su questo punto l’amministrazione penitenziaria non ha dato risposte concrete, se non ammettere più volte la validità delle nostre rivendicazioni.
A tal proposito serve una profonda modifica del sistema delle relazioni sindacali, che nel comparto sicurezza rischiano di essere svilite da scelte che mirano a ridurre l’ambito di contrattazione con le organizzazioni sindacali, a vantaggio di decisioni unilaterali che vanno sempre a discapito del lavoratore. Ne è un classico esempio il decreto legislativo sul riordino delle carriere del personale delle Forze di Polizia, dove le proposte avanzate dalle organizzazioni sindacali sono state quasi del tutto ignorate ed il testo finale approvato dal Parlamento è stato il risultato delle proposte avanzate dalle amministrazioni coinvolte. Su questo tema bisogna rafforzare il ruolo della contrattazione integrativa e guardare al resto del pubblico impiego per allargare il campo delle libertà sindacali. Su questo tema riteniamo inaccettabile che al personale delle Forze di Polizia non sia consentito di eleggere le RSU e, soprattutto, non è pensabile che non gli sia data la possibilità di accedere alla previdenza complementare, condannandolo ad un futuro di stenti una volta raggiunta l’età per andare in pensione.
Il personale in servizio negli istituti penitenziari è costretto ad effettuare turni massacranti, che arrivano anche a 16 ore al giorno. Quello impiegato nelle traduzioni dei detenuti viene continuamente utilizzato in ulteriori viaggi al termine del turno di lavoro ed opera con mezzi scomodi che spesso hanno più di 500.000 KM. Gli istituti penitenziari sono diventati luoghi insicuri, obsoleti e fatiscenti e non ci sono le risorse necessarie per consentire un’adeguata ristrutturazione e messa in sicurezza.
Tutto questo tende a far aumentare i casi di stress correlato al lavoro, di lavoratori non ritenuti più idonei alla permanenza nel Corpo e, purtroppo, i casi di suicidio, circa 35 negli ultimi 5 anni e già 10 nell’anno 2019. Su questo riteniamo doveroso aprire una riflessione.
Il Corpo di Polizia Penitenziaria opera quotidianamente all’interno degli istituti di pena italiani per garantire la sicurezza e favorire la rieducazione della popolazione detenuta, quindi oltre alla custodia e alla sorveglianza dei detenuti e degli internati, il personale di Polizia Penitenziaria contribuisce alla realizzazione delle attività trattamentali rivolte alla popolazione detenuta, nell’ambito del più ampio mandato costituzionale. Questi compiti diventano ancora più complessi nel momento in cui gli appartenenti al Corpo sono chiamati a gestire e a controllare gli eventi critici di servizio che si verificano nelle nostre carceri.
Le attuali modalità di svolgimento delle attività lavorative inducono in circa il 70% degli operatori di Polizia Penitenziaria un notevole affaticamento, a causa soprattutto del sovraccarico di lavoro, ma incidono anche i fattori organizzativi e gli eventi critici che si verificano.
Tra i fattori organizzativi merita un approfondimento quanto avvenuto con l’istituzione della sorveglianza dinamica. A livello di organizzazione dell’istituto penitenziario, la sorveglianza dinamica implica l’apertura delle stanze di detenzione per le ore giornaliere, con la chiusura durante la notte. Il personale di polizia penitenziaria nelle sezioni detentive non dovrebbe più essere assegnato ad una postazione fissa, bensì dovrebbe muoversi nella sezione (da qui la dinamicità della sorveglianza) e mantenere il controllo degli spostamenti delle persone detenute con l’ausilio di supporti elettronici (citofoni, videocamere, monitor). Come dicevamo, nel concreto quanto previsto dalla teoria si discosta molto dalla realtà e questo contribuisce all’aumento dello stress legato all’organizzazione del lavoro, aggravato da una persistente carenza di personale.
Inoltre, le strutture penitenziarie racchiudono una popolazione di persone detenute che fin dall’ingresso in carcere portano con sé il loro vissuto personale di disagio, che realizza il concentramento in un unico ambiente di malattie fisiche, psichiche e di devianza comportamentale. Una delle manifestazioni più frequenti espresse da questi pazienti è rappresentata dall’autolesionismo. La misura della sorveglianza, adottata in tali casi dal personale di Polizia penitenziaria in servizio, riguarda la necessità di controllo della persona che presenti possibilità di auto nocumento o auto soppressione e, a seconda del livello di tale rischio, vengono valutate ed attuate su indicazione di équipe , la grande sorveglianza (controllo ogni 20 minuti), la grandissima sorveglianza (controllo ogni 10 minuti) e la sorveglianza a vista. Per far fronte poi a tali manifestazioni è necessaria un’ assistenza psichiatrica, ma molto spesso la presenza di specialisti è limitata negli istituti penitenziari e ciò comporta una discontinuità negli interventi. Gli strumenti usati dal Dap per risolvere le problematiche sanitarie che si sono presentate di volta in volta in carcere non sono congrui e spesso vanno a discapito del personale in servizio, che si ritrova ad espletare la sorveglianza a vista di detenuti che necessiterebbero di cure da parte di personale specializzato.
Il fatto che la maggior parte degli istituti penitenziari presenti un evidente stato di degrado, rende da un lato particolarmente gravose le condizioni lavorative degli operatori di Polizia penitenziaria e dall’altro priva i detenuti di potenziali spazi da dedicare ad attività rieducative. Si tenga presente che lo stato di degrado non riguarda solo l’istituto, ma anche gli alloggi per il personale, in cui molto spesso sono assenti i servizi primari per soddisfare le esigenze del personale stesso.
Non meno dannosi sono gli episodi in cui il personale è vittima di offese, minacce e aggressioni fisiche, come quelli in cui deve intervenire per evitare fenomeni di autolesionismo e suicidio di un detenuto. Ognuno di questi eventi critici ha il potenziale per minare il benessere degli operatori. Anche questa situazione è aggravata dalla costante carenza di operatori in servizio, che impedisce una corretta e sicura gestione dell’evento critico contribuendo alla crescita dello stress dell’operatore.
Tutto questo non può essere fronteggiato semplicemente con l’istituzione di un numero verde presso l’ospedale Sant’Andrea, a cui si devono rivolgere gli operatori presenti su tutto il territorio nazionale.
Da non sottovalutare, infine, lo stress causato dal dover sottostare ad un sistema disciplinare inadeguato ai tempi e senza alcuna garanzia difensiva per il personale. Serve una urgente rivisatazione del suddetto sistema, partendo dalle modalità con cui vengono emanati i giudizi di fine anno, che consenta maggiori tutele per i Poliziotti Penitenziari, maggior trasparenza dell’azione amministrativa e soprattutto impedisca il possibile utilizzo dello stesso come mezzo di ritorsione nei confronti dei lavoratori.
A quattro anni dalla emanazione del DPCM n.84 del 15 giugno 2015, riguardante il “regolamento di organizzazione del Ministero della Giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche”di cui al D.l. 95, nonché dei successivi decreti attuativi che hanno ridefinito l’organizzazione dei dipartimenti cui è articolato il Ministero, proviamo a fare un bilancio circa la attuale situazione organizzativa ed operativa dei due dipartimenti, che forse più di altri sono stati oggetto di una riorganizzazione non solo amministrativa ma anche politico-culturale a dir poco rivoluzionaria per il nostro sistema dell’esecuzione penale.
Abbiamo condiviso da subito la filosofia che ha ispirato tale progetto che potremmo definire epocale per un sistema da anni imballato e poco conforme alle raccomandazioni europee in tema di probation, ritenendo che i tempi fossero maturi per ridefinire e reimpostare il sistema dell’esecuzione penale, particolarmente centrato sull’aspetto puramente “detentivo”, che ha finito per relegare quasi in una dimensione di diminutio il sistema dell’esecuzione penale esterna la cui competenza, con l’introduzione delle nuove misure, come la sospensione del procedimento con la “messa alla prova”, si estende anche ai soggetti che non sono condannati.
Nell’ottica del contenimento della spesa, recupero delle risorse e razionalizzazione delle attività, il DPCM in questione si proponeva di elevare l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa attraverso la riqualificazione delle risorse e l’eliminazione di duplicazione di funzioni e gestioni. Per quanto riguarda il DAP sono state ridotte le Direzioni generali con l’obiettivo di rendere più snello l’apparato organizzativo e più efficiente l’azione amministrativa ed il mandato costituzionale cui lo stesso afferisce.
La FpCgil ha partecipato attivamente al confronto propedeutico all’emanazione di specifici decreti, nel corso del quale sono state evidenziate forti criticità determinate non solo da fattori riguardanti il contenimento della spesa, ma anche organizzative, ritenendo che la riorganizzazione del sistema penitenziario e dell’esecuzione penale esterna, che si stava delineando, non poteva definirsi solo riducendo posti di funzione e/o le direzioni generali, che sicuramente hanno un certo peso dal punto di vista economico, ma che fosse necessario intervenire con urgenza anche sugli aspetti logistico strutturali.
Abbiamo affermato che una buona riorganizzazione si definisce soprattutto attraverso una buona ed attenta razionalizzazione delle risorse logico-strutturali ed umane, che del sistema organizzativo sono componenti indispensabili, attraverso la valorizzazione delle competenze, il riconoscimento delle peculiarità professionali, nonché una equa e razionale assegnazione delle stesse sul territorio, fattori che contribuiscono a rendere l’organizzazione più efficiente.
Abbiamo ribadito più volte che una buona riforma organizzativa del sistema dell’esecuzione della pena non poteva essere attivata a costo zero, ma oggi, purtroppo, l’auspicato effetto riformatore dei citati decreti non è ancora visibile, anzi la riorganizzazione sia del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sia del dipartimento della giustizia minorile e di comunità sembra faccia fatica a decollare.
Evidenziamo, ancora oggi, una situazione davvero imbarazzante, di evidente confusione, che genera stallo, determina disorientamento e malessere operativo e professionale tra tutto il personale che è impegnato a svolgere un mandato istituzionale complesso quanto delicato.
Tale situazione si è venuta a delineare in maniera più determinante ed evidente all’indomani della nuova governance amministrativa e politica con la quale appare molto difficile avviare un confronto dialettico sulle tematiche più cogenti per il personale delle funzioni centrali, che lamenta forte indifferenza da parte dei vertici dell’amministrazione. A tal proposito evidenziamo le numerose richieste di incontro formulate da questa O.S. anche congiuntamente a CISL e UIL, finalizzate ad avviare un sereno confronto su specifiche problematiche che attendono da tempo soluzioni. Richieste di confronto che, purtroppo ad oggi, appaiono eluse.
Riteniamo opportuno ridefinire la dotazione organica del personale delle funzioni centrali, che risulta inadeguata rispetto a carichi di lavoro che diventano sempre più gravosi, considerando l’aumento numerico della popolazione detenuta che ad oggi è di 60522 unità a fronte della decrescita dell’organico del personale delle funzioni centrali.
Tale decrescita è determinata dall’assenza di un serio turn over del personale che in considerazione dell’età anagrafica e dei recenti interventi normativi in materia di pensioni lascerà nei prossimi due anni il posto di lavoro, nonché ad una politica assunzionale che appare più propagandistica che realistica.
Ad oggi (dati dipartimentali) la dotazione organica del personale delle funzioni centrali, afferenti le diverse professionalità che agiscono nel sistema dell’esecuzione penale interna, comprensive della dirigenza penitenziaria e contrattualizzata, é di 4340 unità a fronte delle 5034 previste.
Risultano carenze significative non solo riguardo professionalità specifiche del trattamento intramurario come il Funzionario Giuridico pedagogico, la cui carenza ammonta a circa 100 unità (presenti 900 unità per una popolazione detenuta di 60522 unità che sembrano ciclicamente aumentare), ma la forte carenza di organico si evidenzia anche nell’area contabile ( funzionari contabili Area 3 e contabili Area 2) , circa 261 unità , che determina negli istituti gravi criticità operative. Infatti frequentemente tale professionalità é chiamata a ricoprire le proprie funzioni anche in altri istituti dove l’organico è, in alcuni casi, pari a zero.
Inoltre gravi carenze di organico afferiscono all’area delle professionalità tecniche (circa 276 unità) , nonché amministrativa (141 unità) .
Anche il bacino d’utenza dell’esecuzione penale esterna ha registrato un progressivo aumento che non è soltanto determinato dall’introduzione della misura della “messa alla prova”, ma anche dal costante aumento del numero di persone che fruiscono delle misure alternative e sanzioni sostitutive.
Come si può desumere dai dati forniti dalle statistiche annuali curate dallo stesso DGMC dal 2015 all’anno in corso vi è stata una crescita costante delle misure e sanzioni alternative e una crescita esponenziale della richiesta ed esecuzione di programmi di messa alla prova per adulti. A gennaio di quest’anno le persone complessivamente in carico agli uffici sono state oltre 55 mila, ossia un numero di poco inferiore al numero dei detenuti presenti nelle strutture penitenziarie.
Si deve considerare, inoltre, che una funzione fondamentale dell’esecuzione penale esterna è quella della consulenza sia nei confronti della magistratura che nei confronti degli istituti di pena; nell’elaborazione delle statistiche annuali del 2019 questo dato rende evidente che il carico di lavoro degli Uffici è notevole anche su questo versante tanto che si tratta di ben altre 39 mila persone che si aggiungono alle 55 mila che già fruiscono di una misura.
Si aggiunga che con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 i tempi per l’istruttoria del procedimento, che precede la concessione delle misure alternative sono stati abbreviati pertanto i ritmi con cui viene richiesto agli uffici di svolgere gli interventi di consulenza sono particolarmente sostenuti.
Sin dalla costituzione del Dipartimento di giustizia minorile e di comunità questa O.S. aveva segnalato che la semplice sommatoria del personale della Giustizia Minorile e dell’Esecuzione Penale esterna non era sufficiente a sostenere il progetto di un moderno sistema di probation. Ricordiamo che soltanto a seguito di ripetute proteste dei lavoratori e della stessa campagna di FpCGIL “Fuori a metà” è stato finalmente bandito un concorso per 250 funzionari di servizio sociale previsto di fatto dalla Legge 67/14 e sempre rinviato.
Guardando ai numeri crescenti dell’utenza che fruisce dell’esecuzione penale esterna non possiamo che ritenere del tutto insufficiente l’incremento di personale funzioni centrali sinora previsto per il DGMC . I numeri già insufficienti di funzionari di servizio sociale, amministrativi e contabili si sono ulteriormente ridotti per effetto della “ quota 100”, in materia di sistema pensionistico, al punto che i servizi si reggono sulla presenza di lavoratori sfruttati come gli esperti di servizio sociale, di volontari del servizio civile e sull’utilizzo della Polizia Penitenziaria a copertura di postazioni amministrative. La situazione è particolarmente grave negli uffici sedi di servizio alcuni dei quali si reggono sulla quasi esclusiva presenza di esperti di servizio sociale. E’ sempre più frequente, inoltre, l’attribuzione al personale tecnico di mansioni amministrative per poter garantire il funzionamento degli Uffici; in molte sedi l’utilizzo del protocollo Calliope richiede al personale tecnico di distogliere tempo prezioso al lavoro con l’utenza con conseguente scadimento dell’intervento trattamentale.
Ulteriore criticità è costituita dalla reggenza degli UEPE da parte di dirigenti già impegnati a gestire istituti penitenziari, tale condizione implica la riduzione della presenza in sede a tempi poco significativi, la delega di responsabilità ulteriori ai funzionari in posizione organizzativa quali ad esempio l’autorizzazione degli affidati in derogare alle prescrizioni che il Magistrato di Sorveglianza assegna al Direttore UEPE.
Altra questione in apparenza congruente come l’assegnazione agli UEPE di soli automezzi della Polizia Penitenziaria ha reso inutilizzabili dal personale funzioni centrali i mezzi di servizio e in alcune realtà azzerato le uscite sul territorio a seguito dell’assenza di unità di polizia penitenziaria nella sede. Per tamponare tali disagi molto spesso si fa ricorso al personale di Polizia Penitenziaria che si trova a svolgere compiti istituzionali non previsti dalla normativa di riferimento. Tale anomalia, sommata alla annosa questione del personale di Polizia penitenziaria che per problematiche di salute transita nei ruoli del personale delle Funzioni centrali (art. 75 della legge 395/90), saturando l’organico del personale amministrativo ed in alcuni casi inficiando la qualità dell’apporto professionale, sta comportando evidenti problematiche di intolleranza e malcontento tra il personale.
La carenza di personale, la mancanza di un progetto organico che riguardi la gestione e la politica del personale penitenziario e che tenga conto della peculiarità socio-culturale del contesto e della sua complessità, la mancanza di normali relazioni sindacali, sono criticità di cui l’amministrazione dovrà farsi carico con urgenza, al fine di evitare e/o di acuire anche contrapposizioni tra le competenze afferenti le due anime professionali presenti nel contesto, quelle del Comparto sicurezza e quelle delle Funzioni centrali.
Non da ultimo si ribadisce la necessità di riconoscere al personale l’impegno professionale che quotidianamente esercita nei diversi posti di lavoro, personale che oggi più che mai sembra vivere in completa solitudine il suo percorso lavorativo per molti quasi al termine. Eppure a fronte del riconoscimento auspicato, il personale appare spesso vessato anche nei diritti primari, come la decurtazione dell’indennità penitenziaria a seguito di assenza per malattia in virtù dell’art. 71 della cosiddetta Legge Brunetta del 2008, da cui sono esclusi i Dirigenti penitenziari ed il personale della polizia penitenziaria.
Numerosi sono stati gli interventi che negli ultimi tre anni abbiamo posto in essere riguardo tale questione, che sta rappresentando nel contesto penitenziario e della giustizia minorile e di comunità una seria problematica che rischia di inficiare, come anzidetto, l’equilibrio dell’integrazione operativa e professionale tra le due anime professionali che caratterizzano il contesto, quella afferente al comparto ministeri e quella al comparto sicurezza, anime che convivono lo stesso contesto e che condividono la stessa mission istituzionale benché si riferiscano a diversi norme contrattuali.
Ebbene la peculiarità del contesto, la specificità operativa e professionale dei lavoratori penitenziari tutti, comparto sicurezza e comparto ministeri, furono riconosciute dal legislatore che, con interventi normativi, estese negli anni ‘ 70 l’indennità di servizio penitenziario a tutto il personale c.d. “civile”, rafforzando tra i lavoratori l’appartenenza al mandato istituzionale e la condivisione operativa, benché con apporti professionali differenti nella loro specificità, nel medesimo contesto, delicato e complesso, quale quello dell’esecuzione penale ( interna , esterna e minorile). La decurtazione dell’ assegno della indennità di servizio penitenziario, corrisposto per tredici mensilità ed utile ai fini della quiescenza, sta avvenendo per il solo personale delle Funzioni centrali (già comparto ministeri ) in applicazione dell’art.71 D.L. 25/6/2008 n.12 convertito in L.n.133 del 6/8/2008 e dell’orientamento applicativo dell’ARAN nonchè dei rilievi formulati dal MEF, rilievi che hanno portato l’amministrazione al recupero delle somme anche retroattive, ovvero dal 2008.
Tutto ciò, per quanto esposto, ci sembra davvero inaccettabile e sta determinando forte disagio ed apprensione tra il lavoratori del DAP e del DGMC. E’ evidente , pertanto, la necessità di dirimere con urgenza la problematica per riconoscere pari dignità ai lavoratori penitenziari.
Il quadro politico attuale ci consegna un’idea dell’esecuzione della pena che, con il pretesto della certezza della stessa, dimostra una finalità prevalentemente retributiva, centrata sulla necessità di punire il colpevole, e preventiva, con la funzione di eliminare le cause della criminalità e dissuadere i cittadini dal commettere reati. In un contesto del genere la finalità rieducativa rischia di passare in secondo piano e il sistema rischia di fare un passo indietro di quasi trenta anni, che lo riporterebbe a prima dell’emanazione della legge 395/90.
Contemporaneamente, per distogliere l’attenzione da altre priorità che non si è in grado di affrontare e con una finalità esclusivamente propagandistica, il concetto di sicurezza del Paese è stato posto in correlazione con il fenomeno migratorio che ha interessato il nostro paese negli ultimi anni.
I due fattori hanno modificato il quadro normativo disegnato negli anni precedenti e, mettendo da parte l’idea di considerare il carcere solo come “extrema ratio” e destinato esclusivamente al reo socialmente pericoloso, hanno portato ad un aumento della popolazione detenuta.
Questa idea dell’esecuzione della pena, già praticata da precedenti esperieze governative che, come dicevamo in premessa, si sono concluse con un evidente fallimento, va contrastata con fermezza. Le diverse professionalità che operano negli istituti penitenziari conoscono benissimo il forte disagio lavorativo che hanno dovuto affrontare quando la popolazione detenuta superava le 67.000 unità ed è immaginabile quanto il disagio diverrebbe esponenziale se si tornasse in quella vissuta situazione , oggi resa ancor più gravoso dalle dotazioni organiche del personale di polizia penitenziaria e delle funzioni centrali ulteriormente diminuite.
Per questo chiediamo con forza al Ministro e quindi al Governo del paese di riavviare l’interrotto confronto sull’esecuzione penale e mettere in campo una concreta opera di potenziamento del settore dell’esecuzione penale esterna, in modo da ridurre le presenze in carcere solo ai soggetti che anche in relazione al tipo di reato sono riconosciuti pericolosi socialmente ed affidare all’esecuzione penale esterna, invece, tutti quei soggetti che non rappresentando un pericolo sociale e intendono intraprendere un percorso di reinserimento nel tessuto sociale.
Le misure di probation consentono, inoltre, di rivolgere attenzione alle vittime del reato: nell’ambito dell’affidamento in prova e della messa alla prova, infatti, larga parte del lavoro preparatorio all’esecuzione delle misure è centrato sulla riflessione nei confronti di chi ha subito le conseguenze del reato. Tale azione concorre a realizzare quanto previsto dalla direttiva europea n° 29 del 2012 che vincola anche il nostro Paese a tenere in debita considerazione la vittima nell’ambito delle politiche del sistema penale.
Prima di avviare un percorso del genere è, però, necessario innanzitutto prevedere un piano straordinario assunzionale finalizzato a garantire il mandato istituzionale del settore sia per quanto riguarda le misure alternative sia per quanto riguarda la “ messa alla prova”. Interventi che oggi vengono svolti con difficoltà e forte disagio in quanto all’ aumento a dismisura dei carichi di lavoro non corrisponde adeguato incremento di organico, una condizione divenuta insostenibile che riduce ovviamente la possibilità di fruire dei diritti soggettivi previsti dalla normativa vigente.
Parimenti, all’interno degli istituti penitenziari, bisognerà prevedere un aumento delle risorse ( umane ed economiche) destinate alle attività trattamentali, motore principale del processo rieducativo della pena e di reinserimento sociale ( art.27 della Carta costituzionale), che vogliamo ricordare genera sicurezza, a differenza della recidiva che causa insicurezza nella società civile, anche al fine di cercare un rimedio al fallimento del progetto della vigilanza dinamica, che proprio nell’ozio della vita detentiva trova un ostacolo ad una sua corretta applicazione.
Si rende necessario, pertanto, individuare nuove strategie e strumenti che possano favorire l’occupazione dei detenuti in carcere e in particolar modo di quella larga parte di cittadini non comunitari presenti negli Istituti; in tal senso sembra di sicura utilità un’estensione della Legge Smuraglia alle ditte ed aziende che vogliano offrire occupazione a soggetti in esecuzione penale alternativa al carcere non necessariamente dando inizio al rapporto di lavoro all’interno dell’Istituto.
Questo è il modello di esecuzione della pena che vogliamo per il nostro Paese. Un modello che sostenga il mandato Costituzionale affidato a tutti i lavoratori che rappresentiamo e garantisca loro la possibilità di lavorare in modo dignitoso e crescere professionalmente.
Per fare questo, però, non basta soltanto un piano di assunzioni straordinario, ma servono una serie di investimenti che impediscano al carcere di tornare ad essere la discarica sociale di cui abbiamo parlato all’inizio del nostro ragionamento. Investimenti che consentano di ristrutturare gli istituti penitenziari, che sono diventati ormai luoghi malsani ed insicuri, di acquistare i mezzi necessari a mandare avanti tutte le attività operative ed amministrative, i mezzi di trasporto del personale e dei detenuti, la formazione del personale, la possibilità di progressione in carriera, la tutela della salute.
Per non dimenticare, poi, le risorse necessarie a rinnovare i contratti di lavoro, che non sono state stanziate dal precedente governo nonostante gli stessi siano scaduti da oltre 250 giorni. Perchè solo garantendo un adeguato rinnovo contrattuale, sia nella parte normativa che in quella economica, si può assicurare dignità a chi lavora nel difficile compito di garantire l’esecuzione della pena. Per fare questa operazione diventa fondamentale l’importanza che si vuole dare a questo settore e tale importanza potrà essere misurata con gli investimenti che verranno fatti nella prossima Legge di Stabilità.
Per questo continueremo a portare avanti le nostre rivendicazioni, incalzando il nuovo esecutivo e, se sarà necessario, intensificando le manifetsazioni di protesta ” anche congiuntamente al personale giudiziario, dal momento che sistema penale e giudiziario sono elementi complementari che devono agire in maniera sinergica per raggiungere un buon livello di efficienza della Giustizia e pertanto devono svilupparsi in maniera coordinata “, elemento di lotta essenziale per il sindacato.
Riteniamo che solo attraverso il rinnovo contrattuale si possono superare tutte le sperequazioni tra le varie professionalità che operano nel sistema dell’esecuzione penale , nonché di genere, da quelle che riguardano il personale femminile e la mancanza della previdenza complementare nella Polizia Penitenziaria, a quelle che riguardano il personale delle funzioni centrali rispetto alla decurtazione dell’indennità penitenziaria, passando poi a quelle che consentirebbero di garantire uno strumento di democrazia fondamentale come l’elezione delle RSU in tutti i settori. Per non parlare poi della necessità di rivedere un sistema di relazioni sindacali ormai datato ed inadeguato a garantire il rispetto dei ruoli, di rafforzare il ruolo della contrattazione decentrata, di valorizzare le professionalità acquisite tramite un nuovo ordinamento professionale del personale, che consenta procedure di crescita adeguate, di introdurre nuove forme di lavoro al passo con i tempi, come ad esempio lo smart working, e all’urgenza di garantire modifiche normative che impediscano ai datori di lavoro di aumentare i carichi di lavoro a dismisura e prolungare l’orario di servizio in modo sconsiderato.
Ci sia consentito di concludere il ragionamento dicendo che, in un tale difficile, complicato e delicato contesto nel quale i lavoratori del settore si trovano ad affrontare quotidianamente problematiche di una certa rilevanza anche emotiva , va data maggior attenzione al problema dello stress correlato al lavoro che può portare alla sindrome del burnout che si manifesta in tutte quelle professioni con implicazioni relazionali molto accentuate . Ma noi crediamo anche che nel contesto in questione, uno dei fattori determinanti sia una inefficiente organizzazione del lavoro. Riteniamo, quindi, necessaria in primis una profonda destrutturazione dell’organizzazione lavorativa, seguita dallo sviluppo di un innovativo approccio organizzativo del lavoro. All’interno della nuova organizzazione dovranno essere inseriti nuovi modelli e strumenti di supporto occupazionale e dovranno essere previsti ampi stimoli formativi, con il fine ultimo di limitare gli stress e valorizzare l’intero organismo penitenziario. Si potrebbe agire sulla gestione delle risorse umane organizzandole in modo congruo per evitare che gli operatori penitenziari si trovino costretti a svolgere molti incarichi in poco tempo, con periodi di riposo troppo brevi e dovendo eseguire compiti differenti simultaneamente. Sarebbe inoltre importante una ristrutturazione degli alloggi e degli spazi ricreativi, per l’organizzazione sistematica di attività ludico-sportive per promuovere il benessere e influenzare positivamente il clima lavorativo. Ma soprattutto servirebbe un costante intervento esterno con counselling da parte di professionisti accreditati: la presenza di psicologi, sociologi e altre categorie sarebbe utile per ridurre e aiutare la gestione dello stress generato dal lavoro.