Oltre il danno la beffa. L’Ipotesi di CCNL firmata dalla più striminzita maggioranza che la storia ricordi non ha soltanto il torto di far perdere terreno a un intero comparto, cancellando gli arretrati del 2022 e del 2023 e rendendo irrimediabile la perdita di potere d’acquisto consumata negli ultimi anni. Elude un’altra questione fondamentale: quella del valore del buono pasto.
Sì, perché se nel periodo di riferimento il costo della vita è cresciuto in maniera esponenziale – vuoi per gli eventi internazionali, vuoi per i margini di extra-profitto che si sono riservati certe aziende – il valore dei ticket è addirittura FERMO A DODICI ANNI FA.
Una situazione che grida vendetta al cielo, che tutti (a parole) stigmatizzano, ma che qualcuno ha deciso di eludere bruciando le tappe per la firma.
Possiamo discutere di alta filosofia quanto vogliamo, ma un dato è palese: oggi con 7 euro riesci forse a fare una discreta colazione, di certo non a consumare un pranzo dignitoso.
Come testimoniato da una ricerca condotta da Bva Doxa, “si parte da una media di 8,10 euro per la consumazione di un panino con bevanda e caffè ai 15 euro richiesti per un menù completo”. E il dato, ovviamente, varia da regione a regione. Il rincaro è confermato dall’Osservatorio nazionale Federconsumatori, secondo cui per consumare un primo piatto si spendono mediamente 9,80 euro, per un secondo servono 11,60 euro.
L’Ipotesi sottoscritta dai “firmaioli” fa registrare una perdita in termini reali pari a 332 euro per ogni funzionario, 274 euro per ogni assistente, 260 euro per ogni operatore. Se a ciò aggiungiamo i buoni pasto bloccati, è evidente dove stia di casa il tafazzismo: nella volontà di alcuni di firmare.
Ora, che le Amministrazioni vogliano risparmiare, intuitivamente lo capiamo. Ma perché chi dovrebbe difendere i lavoratori si è piegato?
Coordinatore nazionale FP CGIL INPS
Giuseppe Lombardo