#CuriamociDiNoi, tappa in Calabria

29 Ottobre 2024

In un territorio come la Calabria in cui le Aziende sanitarie sono da anni commissariate e dove ci sono indagini per infiltrazione mafiosa, a Locri abbiamo conosciuto professionisti della sanità, orgogliosi del proprio lavoro, che con passione e dedizione difendono i servizi e, nonostante i conflitti emergenti, anche la cura delle persone.

“Vogliamo soprattutto lavorare bene in ambienti adeguati per struttura, organizzazione e strumentazione, lo facciamo per le persone e per la coesione sociale che in questo territorio viene meno per l’inasprirsi dei conflitti”.

     Abbiamo girato i reparti dell’Ospedale e abbiamo scoperto servizi di eccellenza che curano le persone con professionalità e competenza. Radiologia, Medicina, Anestesia e Rianimazione tra le altre. Tutte e tutti chiedono risorse per i servizi prima che per sé stessi, contratti stabili e personale adeguato. In molti servizi, i colleghi venuti da Cuba sono vissuti come una risorsa che però va coordinata e integrata nella realtà esistente.

Come prima cosa parliamo con i nostri iscritti che lavorano in dialisi, del comparto e della dirigenza. “Qui facciamo mobilità attiva”, ci dicono. Per tutta la stagione estiva aumentano moltissimo i carichi di lavoro per dare risposta ai dializzati che vengono in vacanza in zona. È complicato perché, “nella nefrologia più grande della regione (se parliamo di spoke) abbiamo quattordici infermieri e ne mancano tredici, stando ai fabbisogni”.
Questo vuol dire uscire dall’ospedale alle due di mattina e rientrare alle sette, dopo aver fatto diversi chilometri di distanza su strade di montagna. Per questo si fatica a trovare il personale che venga qua, non solo in nefrologia.Mancano i materiali in questo ospedale, la farmacia non riesce a soddisfare le richieste dei reparti, dove ci si arrangia usando le divise dei colleghi che vanno in pensione, perché non vengono fornite. Quindi, ad esempio, capita di vedere oss con divise da infermiere.

Successivamente visitiamo il reparto di ostetricia. Non c’è neppure un medico non obiettore. Tradotto: la 194, qui come in tante realtà del nostro paese, viene svuotata dall’interno negando alle donne il diritto ad un aborto in sicurezza.

Nel presidio sanitario di Mesoraca abbiamo trovato una comunità attiva ed impegnata: cittadini, utenti, operatori, uniti alle istituzioni locali, per difendere la salute di prossimità.

Il loro presidio negli anni è stato definanziato e svuotato. Ora con le risorse del pnrr sta per essere riconvertito in casa di comunità e ospedale di comunità, ma ad agosto i lavori sono stati interrotti. I 58 operatori fanno miracoli per destreggiarsi tra calcinacci e mezzi antiquati per assistere con dignità le persone. Nella dialisi aspettano i letti nuovi da mesi, ma nel frattempo li aggiustano da soli per il bene dell’utenza, ma protestano perché chiedono più attenzione e risposte celeri. Una comunità cosi unita ci fa rivivere i tempi della grande mobilitazione che negli anni 70 portò poi all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale costruito intorno alle persone, nei luoghi dove la gente vive e lavora, per la promozione della salute, la prevenzione, la cura e la riabilitazione. Una comunità come quella di Mesoraca non chiede più prestazioni ma coinvolgimento e partecipazione nei processi di educazione alla salute. “Noi non siamo qui per lanciare un grido disperato, ma per essere protagonisti attivi delle conquiste che devono ancora venire”, dice Enrico con orgoglio e vigore.

Ci spostiamo a Polistena. Parliamo con medici e tecnici di un laboratorio che sta in piedi con il sacrificio dei professionisti che ci lavorano. Tecnici che fanno solo pomeriggio e notte, riposi saltati. Dodici ore di turno e, a seguire, decidi ore di disponibilità.

Parliamo con una giovane dirigente che con una tranquillità commovente ci dice: “Ho vinto sette concorsi: Palermo, Verona, Piacenza, Roma e altri. Ma ho scelto di restare, perché non volevo abbandonare la mia terra. A volte restare è più complicato che partire”. Parole che fanno venire i brividi, mentre guardiamo macchinari nuovi pagati coi fondi del Pnrr che funzionano solo grazie al sacrificio (non ci sono altri termini) di questa gente che, un po’ in imbarazzo, ringraziamo e salutiamo per andare a visitare la neonatologia che è la seconda tappa della nostra visita. Una specie di bolla positiva, che fa mobilità in entrata da tutta la regione. Dove c’è una primaria che è “emigrata” qua da un’altra azienda della regione dove i rapporti col management erano problematici. E che è stata seguita da una ginecologa che a pochi mesi dalla pensione si è licenziata dalla stessa azienda per vincere un concorso e seguirla per creare questa realtà che abbiamo davanti. Fatta di giovani infermieri pediatrici che ti confermano l’idea che questo sia un bel posto per lavorare.

Il giorno dopo arriviamo a Cosenza e siamo accolti dalle compagne dai compagni della struttura che indossano magliette con il logo della campagna.

L’obiettivo è passare parte della giornata all’ospedale dell’Annunziata, dove ci attende un gazebo in cui parlare con lavoratrici e lavoratori, un punto stampa, un giro per reparti. Ci aspettano la Cgil di Cosenza e il Segretario regionale confederale.E qui  succede una cosa non del tutto inedita, ma per certi aspetti peculiare. Siamo ricevuti dal Direttore Generale dell’ASP che con molta cordialità ci accoglie nel suo ufficio e ci racconta la sua versione delle condizioni dell’ospedale, arrivando a dire che, stando alle stime di Agenas, sembrerebbero esserci troppi infermieri. Breve scambio di battute con cui noi facciamo presente che quelle stime le abbiamo contestate e che se le facessero in pubblico qualche problema potrebbero averlo. E qui accade la sorpresa: la direzione decide di scortarci. Oppure, detto in modo meno crudo: ci accompagnano, senza lasciarci soli un minuto, senza consentirci – in buona sostanza – di aver alcun contatto con le lavoratrici e i lavoratori. Va in onda questa cosa surreale per cui passiamo per un pronto soccorso ristrutturato e bello, ma ciononostante pieno come un uovo e ingolfato di barelle, vediamo una splendida terapia intensiva, ancora da inaugurare, ma non veniamo stranamente portati nella struttura attuale, e così via. Capita l’antifona decidiamo di spostarci sotto al gazebo, dove abbiamo modo di parlare con un po’ di lavoratrici e lavoratori in libertà. Finalmente.

Ultima tappa Castrovillari, ospedale spoke.

Molte lavoratrici e lavoratori ci avvicinano, assieme a cittadine e cittadini che lamentano le difficoltà derivanti dai tempi di attesa, dal fatto che c’è una specie di triage fatto da personale di vigilanza di una ditta privata. Ci colpisce il dialogo con una giovane tecnica di radiologia che ha deciso di chiedere il part time perché non riesce a conciliare la gestione della propria vita e di quella della sua famiglia. Ha un figlio piccolo, e la mancanza di servizi, la programmazione dei turni sempre in bilico, la distanza dal luogo di lavoro le rendono quasi impossibile una conciliazione adeguata. Vuol sapere come fare, perché l’azienda non pare ben orientata. Ne parliamo, spero di averle fatto capire l’utilità del sindacato e della Cgil in particolare. Se ne va dopo aver preso un appuntamento con una nostra delegata.

 

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