Manuela, come è stato entrare a far parte di questo mondo come Comandante donna?
Il Carcere di San Vittore è una delle strutture penitenziarie più complesse del Paese. È stato un compito certamente non semplice essere Comandante qui. Il mio arrivo, più che una novità, è stato – nell’ultra centenaria storia dell’Istituto – una vera e propria svolta epocale e senza precedenti alla quale, oltre a me, si sono dovute abituare le quasi duemila persone che quotidianamente lo “frequentano”. Ho il privilegio e la responsabilità di essere uno dei primi Comandanti donna. Il primo certamente di questo Istituto.
Qual è stata la reazione del personale al tuo insediamento?
Abituarsi ad una donna al comando non credo che sia stato semplice. Perché, se è certamente un dato inconfutabile che ancora oggi ai vertici delle strutture della Pubblica Amministrazione in generale e di quelle di Polizia e delle Forze Armate in particolare le donne sono una minoranza, è altrettanto vero che agli occhi di molti la connotazione femminile ed il comando sembrano due cose incompatibili. Quante volte ho visto negli occhi delle persone lo stupore, a volte addirittura lo sguardo interrogativo, nel vedere una donna con quest’uniforme. Una reazione che farebbe un po’ sorridere, se non fosse che siamo nel 2019 e che la modernità di un Paese, che ha l’ambizione di essere nelle prime file delle democrazie occidentali, non dovrebbe sorprendersi se una donna comanda la sicurezza di un carcere.
Cosa vuol dire comandare un Reparto di Polizia Penitenziaria?
Beh, non è semplice. Significa essenzialmente occuparsi della sicurezza di un carcere e di tutti coloro che lo frequentano, siano essi detenuti, poliziotti penitenziari, magistrati, avvocati, familiari dei detenuti, volontari ed altri.
Significa avere la competenza per gestire delle dinamiche dove il dato umano è il fattore prevalente nelle relazioni.
San Vittore è forse il luogo dove, più di ogni altro, il rapporto umano è l’arma più importante per affrontare le innumerevoli criticità che si presentano quotidianamente. Un contesto unico e nello stesso tempo emblematico per la situazione di cronico sovraffollamento e per i problemi strutturali legati ad un ambiente detentivo fatiscente e inadeguato.
Significa entrare in relazione con una umanità complessa composta da una popolazione detenuta altamente variegata per cultura, razza, religione e problematicità spesso legate alla tossicodipendenza e alle patologie psichiatriche.
Denominatore comune è la sofferenza e la disperazione, troppo spesso legata a situazioni gravi di disagio sociale, economico e familiare di chi, peraltro, vive la maggior parte del proprio tempo di detenzione in cella, all’interno di spazi ristretti e angusti. È difficile raccontare cosa si prova nel vedere la sofferenza di un uomo. Ancor di più, è difficile descriverne la condizione in questa situazione e capire come intervenire e motivare il personale, soprattutto quando mancano le risorse. Il ruolo del Comandante, in questo mondo così complesso, si compone di mille momenti, che vanno dalla programmazione dei servizi alla gestione dell’emergenza, valutando ogni singolo dettaglio e tutte quelle sfumature che possono essere percepite solo con una profonda passione ed un immenso rispetto per l’uomo.
Sei riuscita a scardinare questo scetticismo?
All’atto del mio insediamento mi sono subito resa conto di aver spezzato una tradizione di comandanti dai capelli corti, simbolo di ordine, vigore e forza che certamente un viso femminile non avrebbe mai potuto esprimere.
Mi sono interrogata su come avrei dovuto esercitare la mia funzione. Ho subito ritenuto che sarebbe stato controproducente riproporre un modello di comando maschile che certamente non avrei saputo interpretare, ed allora, ho deciso di fare spontaneamente il Comandante da donna. L’ho fatto con naturalezza.
Certo, all’inizio non è stato semplice. Ho percepito subito la cultura maschile e l’impostazione maschilista ed ho dovuto lavorare perché si facesse breccia in questa logica conservatrice, per cui il Comandante per antonomasia doveva essere un uomo.
Se comandare non è cosa facile, eseguire gli ordini lo è ancora di meno, soprattutto quando si ha qualche resistenza ad accettare, non tanto le disposizioni impartite, ma la figura di chi le impartisce.
Ho lottato contro gli stereotipi propri degli ambienti di caserma ed ho cercato di sgretolare quella diffidenza che ho letto negli occhi dei miei collaboratori conquistando, giorno dopo giorno, uno spazio di autorevolezza.
Ti sei domandata il perché di tanta reticenza?
Innanzitutto credo che sia stato condizionato dal contesto essenzialmente maschile, costituito per il 90% da uomini e per il 10% da donne.
Inoltre certamente ha inciso la storia. A differenza degli altri corpi di polizia, le donne sono entrate solo negli anni ‘90.
Alla luce di tali considerazioni, una possibile risposta al rifiuto l’ho trovata nella paura. Nella paura del cambiamento. Nella paura di un qualcosa di diverso, diverso dal passato e diverso da sé stessi.
Allora ho pensato che solo mettendomi al loro fianco potevo dimostrare che non vi era motivo di temere e che, se potevo mettermi in gioco io, lo potevano fare anche loro con me.
Certo, questo mi ha impegnato con enormi sacrifici, personali e familiari. Fare il Comandante in questo modo significa non risparmiarsi, avere pochissimo tempo per sé e soprattutto dedicarsi totalmente a ciò che si sta facendo, senza orari, senza spazi diversi.
Con i detenuti hai avuto la stessa difficoltà a farti accettare?
No, ho sorprendentemente constatato che un uomo in difficoltà non ha pregiudizi. Un uomo in difficoltà, evidentemente, non vede il sesso di chi gli sta di fronte, ma percepisce il senso di umanità e la sensibilità che gli comunica il suo interlocutore.
Ed è stato proprio in circostanze come queste che la femminilità del comando è stato un valore aggiunto. Ho cercato la mediazione con soggetti autolesionisti, che sono riuscita a disarmare con le parole, a volte negoziando per farmi consegnare la lametta che si erano puntati alla gola. Ho rassicurato detenuti arrampicati sui tetti dell’istituto o sui cancelli della rotonda centrale. Semplicemente usando gentilezza, umanità e garbo ho convinto detenuti a rientrare in cella o azioni di barricamento con brande ed altri oggetti posti davanti al cancello della cella. Sono intervenuta con fermezza e decisione durante risse tra detenuti all’interno dei cortili o sui piani, dove ho assistito a guerre senza esclusioni di colpi, guadagnando in termini di autostima e identità del ruolo. Sono intervenuta con molte persone affette da disturbi comportamentali e/o psichiatrici. Mi sono spesa personalmente, cercando di ascoltare, capire, comunicare con detenuti con la bocca cucita o che avevano ingerito oggetti, quali posate, pile o altro, per persuaderli ad interrompere quelle assurde manifestazioni di protesta.
Mi sono imbattuta in alcune situazioni che mi hanno sicuramente segnata, ma credo che gli stessi eventi avrebbero lasciato in me lo stesso segno, se fossi stata un uomo.
Quindi il tuo essere donna si è rivelato in molti casi un valore aggiunto.
Non ho mai pensato di snaturare la mia femminilità. La femminilità per una donna al comando è un valore che certamente non deve essere esaltato ma che, allo stesso tempo, non deve nemmeno essere forzatamente celato.
Sono convinta che gestire criticità in veste femminile significa dimostrare che la forza di un’Istituzione sta nella mente, nell’intelligenza e nella capacità di ascoltare, di intervenire.
Mi sento di dire che in linea di principio, non è possibile fare una distinzione netta tra uomini e donne. Tuttavia riconosco nelle donne una maggiore familiarità con il mondo emozionale, che le porta a sintonizzarsi più facilmente con il vissuto interiore dell’interlocutore e, pertanto, a decifrare un linguaggio emozionale spesso criptato, ponendo in essere atti, gesti e parole, capaci di mettere a proprio agio e allentare la tensione in situazioni di accesa conflittualità. La capacità di osservare, l’acume, la perspicacia di intuire, mi hanno consentito con gli anni di affermare il ruolo che oggi mi viene riconosciuto con stima e fiducia.
Tutto questo, lo confermano le attenzioni ad ora di pranzo, quando, immersa nel lavoro d’ufficio per la redazione degli atti, qualcuno bussa alla porta, solo per consegnarmi il panino che avrei scelto personalmente se mi fossi potuta recare al bar. Sono piccole cose ma hanno un grande significato.
Carcere a parte, qual è la percezione di una Comandante donna nel ‘mondo esterno’, nella vita di tutti i giorni?
Voglio rispondere raccontandovi un aneddoto. Qualche anno fa fui intervistata, insieme ad altri miei colleghi uomini, da una giornalista di una nota rivista mensile che fece un articolo sui Comandanti della Polizia Penitenziaria. Una bella occasione per far conoscere all’opinione pubblica questa sconosciuta figura professionale. Ebbene, la giornalista, e preciso una donna, strutturò tutto il suo articolo parlando ampiamente dei miei colleghi uomini. Riservò solo due righe di fantasiose ricostruzioni al mio lavoro, in cui la figura del Comandante donna di uno dei carceri più famosi d’Italia, veniva descritta come la sintesi tra una moderna Giovanna d’Arco ed una povera martire votata al sacrificio. Ovviamente nulla di vero, ma ne capisco lo scopo. Il giornale è scritto perché qualcuno lo compri e lo legga. E se la giornalista ha ritenuto di scrivere questo è perché, probabilmente, il lettore medio è più affascinato da questa fantasiosa descrizione che dalla realtà che prima ho tentato di raccontarvi a proposito del mio lavoro.
Dunque non è solo un problema culturale del posto dove si lavora o del ruolo che si riveste. È un problema di cultura nazionale. Che sia un Comandante della Polizia Penitenziaria, un Primario ospedaliero o un dirigente di una grande azienda poco importa. Se ad esserlo è una donna, la gente si stupisce ancora. Ciò significa che molto si deve ancora fare.