Purtroppo viviamo in un Paese in cui, più che nel resto dell’Europa, si scontano importanti disparità di condizioni tra i generi. Assistiamo sempre più spesso, negli ultimi mesi, a iniziative della politica che, di fatto, minano le libertà e i diritti individuali delle donne, ad un arretramento culturale che rafforza un modello di società patriarcale. Questo ‘modus pensandi’ si riversa inevitabilmente nel mondo del lavoro, tutto. A partire dalle retribuzioni. Lo scenario italiano infatti è quello di donne mediamente molto più istruite dei colleghi uomini, ma con salari inferiori, a parità di occupazione e di mansioni, nonostante le più elevante competenze. Secondo gli ultimi dati Istat, relativi al 2018, lo scarto di retribuzioni tra uomini e donne sfiora il 30%.
A maggior ragione la maternità è implicitamente considerata, in Italia, un evento personale e legato alla vita privata – e, diciamocelo, un inconveniente per il datore di lavoro – piuttosto che una risorsa per il Paese, che in fondo non è altro che una macchina che si mette in moto e si alimenta, di generazione in generazione. E’ di conseguenza considerato un costo quello per i servizi a sostegno delle famiglie, piuttosto che un investimento. Secondo i dati Istat, infatti, sono il 27% le madri che lasciano il lavoro per prendersi cura dei propri figli, contro il solo 0,5% degli uomini nella stessa condizione.
Non è difficile immaginare quanto possa essere enormemente più complicato per tutte quelle donne che trascorrono gran parte della propria giornata, ogni giorno, in ambienti di lavoro in cui la presenza maschile è predominante. La presenza di donne nel corpo di polizia penitenziaria è una novità introdotta appena 29 anni fa con la Legge 395 del 1990 e rappresenta oggi il 9% del personale tra gli agenti (il 7% tra i sovraintendenti e il 12% tra gli ispettori). Questa è una conseguenza anche della normativa vigente secondo cui “il personale del corpo di polizia penitenziaria da adibire ai servizi in Istituto all’interno delle sezioni deve essere dello stesso sesso dei detenuti”. E se consideriamo che la popolazione carceraria è costituita da circa 55 mila detenuti uomini e da sole 2.228 detenute donne (dati del 2017), va da sé che la presenza maschile è quasi esclusiva.
Ma è davvero quella vigente l’unica modalità possibile? Eppure questo non vale per tutte le legislazioni. Ci sono infatti esperienze europee (come quelle di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Francia e Germania) in cui le donne della Polizia Penitenziaria sono ammesse anche nelle sezioni maschili, salvo che per le operazioni di perquisizione dei detenuti. Queste esperienze ci insegnano che aumentare il numero di donne nel corpo di Polizia Penitenziaria, se fatto con criterio, è possibile. C’è poi da considerare che l’Italia esclude attualmente le donne non solo dai ruoli che operano all’interno delle sezioni detentive, ma anche da ruoli e mansioni che non prevedono il lavoro in sezione: ispettori e sovrintendenti. Gli ultimi concorsi per accedere ai suddetti ruoli, infatti, hanno previsto soli 172 posti femminili per i sovrintendenti, pari al 6% (contro 2.679 posti maschili) e 35 posti femminili per gli ispettori pari al 5% (contro i 608 maschili). Per gli agenti la percentuale aumenta al 22%, con 196 agenti donne e 678 agenti uomini.
Quanto detto fino adesso tocca solo questioni numeriche, c’è poi tutta la questione di come si lavora nelle carceri. Un ambiente storicamente maschile ha mantenuto in sé una serie di aspetti organizzativi e pratici, oltre che psicologici e umani, che rendono difficile il clima per le donne poliziotte. Nelle carceri, per esempio, non ci sono spogliatoi, bagni, armadietti e stanze per il pernottamento che siano riservati alle sole donne. Mancano misure di flessibilità di orari e turni per armonizzare quanto più possibile la conciliazione della vita personale con il lavoro. Sono tanti gli aspetti che fino ad oggi non sono stati curati e che meritano invece la giusta attenzione.
Per questo la Fp Cgil ha deciso, attraverso questa iniziativa, di sensibilizzare la politica a questo tema e di avanzare delle proposte, contenute nella Piattaforma per le pari opportunità, che permetterebbero a tutto il personale di Polizia Penitenziaria, uomini e donne, di vivere in armonia, nel rispetto e nella realizzazione personale e professionale. Nel corpo di Polizia Penitenziaria vi è una discriminazione verso le donne sostanziale rispetto a quanto avviene negli altri corpi di polizia. “Siamo convinti – commenta il sindacato – che una maggiore presenza femminile in ambienti così chiusi e delicati possa dare un contributo importante, rendendoli più sereni e vivibili. Non possiamo fare passi indietro, dobbiamo procedere in avanti, in direzione di una parità di opportunità tra uomini e donne che è da ritenersi civile”.
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