Il caso
delle Biblioteche sparite
Non è un giallo, ma molto più semplicemente un prodotto
della nouvelle vague franceschiniana e
il colpevole è certo, come pure il movente.
Il colpevole è il DM Musei, con quella sua strana previsione
di assegnazione a Poli Museali e Musei autonomi di alcune prestigiose
Biblioteche (la BIASA, la Braidense, la Estense e, da ultimo, la Palatina).
Assegnazione a metà, il decreto si affrettava a precisare. Per salvaguardare
l’autonomia tecnico-scientifica della Biblioteche assegnate il decreto
prevedeva una sorta di testa bicefala, da un lato la DG Biblioteche,
competente, ça va sans dire, sul patrimonio bibliografico, e dall’altro la DG
Musei, titolare di competenze sulla valorizzazione dell’intero sito monumentale
nel cui ambito operano le Biblioteche oggetto delle attenzioni improprie della
riforma. Insomma uno di quei matrimoni impossibili da realizzare nel mondo
della burocrazia statale, nel quale uno dei due soggetti è destinato a soccombere. Cosa regolarmente avvenuta e la
vittima predestinata, manco a dirlo, è la povera DG Biblioteche, costretta ad
una precipitosa e poco onorevole ritirata a seguito di una sfilza di pareri
dell’Ufficio Legislativo, seguiti a ruota da indicazioni operativa da parte di
Segretariato Generale e Direzioni Generali, che di fatto hanno sancito una
completa annessione delle Biblioteche interessate al sistema museale. E lo
hanno fatto intervenendo esattamente rispetto alle competenze
tecnico/scientifiche che dovevano garantire l’autonomia delle Biblioteche sui
processi di tutela e conservazione del patrimonio bibliografico posseduto. Il
funzionario direttore è stato privato di ogni potere di spesa e al dirigente
spettano le autorizzazioni in materia di acquisizioni, prestito ed esportazioni
delle opere bibliografiche. Il dirigente può intervenire persino sulla
ricollocazione del patrimonio e sul sistema di catalogazione e digitalizzazione
utilizzato. In sostanza si riduce la Biblioteca ad una articolazione
organizzativa del Museo a cui è stata aggregata e i poteri di tutela sul
patrimonio vengono di fatto sottratti ai funzionari bibliotecari. Altrimenti
qualcuno ci spieghi che cosa è l’autonomia tecnico-scientifica e, visto che ci
troviamo, ci spieghi meglio questa curiosa applicazione della polivalenza
funzionale che vede dirigenti storici dell’arte formulare pareri vincolanti sul
patrimonio bibliografico. Tutto in nome della valorizzazione tramite non meglio
evidenziati progetti culturali che come primo effetto stanno producendo la
sparizione dalla toponomastica ministeriale di Biblioteche storiche che pure
avevano resistito a ben altri sommovimenti nel passato.
Così è successo per la
Biblioteca Estense Universitaria di Modena, più prosaicamente inserita nelle
Gallerie Estensi e per la BIASA, sparita nel Polo Museale Laziale, senza alcuna
considerazione nemmeno per il brand, che di solito è il primo elemento da
valorizzare. È così succederà anche alle altre, man mano che il processo di
fagocitazione organizzativa andrà avanti. E che in alcuni casi comporterà anche
audaci riassetti logistici, magari per
far spazio a ristoranti, ormai immaginati un po’ dappertutto come il segnale
del nuovo corso.
Sempre sul sistema delle Biblioteche sembra incombere la
creazione dei cosiddetti poli amministrativi bibliotecari, che dovrebbero
ricondurre a unicum il governo di alcune Biblioteche su base territoriale. Anche
in questo caso siamo molto curiosi si capire come concretamente si attuerà
questo processo, ovvero se pure per questo processo registreremo, cosa
facilmente prevedibile, mere annessioni con annullamento della specificità
culturale su cui storicamente si basa il nostro sistema delle Biblioteche
Statali.
Un panorama desolante, quello delle Biblioteche statali, che
rischiano di essere sempre più marginalizzate e che hanno pagato costi
pesantissimi alle riforme, perdendo nel corso degli anni la gran parte dei dirigenti
e dei finanziamenti e, con essi, la necessaria autorevolezza a proseguire in un
progetto culturale che ne doveva fare punti di riferimento sulla tutela, sulla
ricerca e sulle innovazioni organizzative. Nemmeno le clamorose dimissioni dei
membri del Comitato Tecnico-Scientifico sono servite a smuovere le coscienze e
a suscitare un dibattito ampio sulle prospettive di questo fondamentale
settore.
Una vicenda che si consuma nel paradosso della
valorizzazione in salsa italiana, ovvero lasciando credere che il futuro di
questo settore passi per una improbabile messa a reddito del patrimonio e non
per un processo lungo e faticoso di rimodulazione organizzativa e dell’offerta
culturale e di progetti che migliorino la fruizione e l’innovazione dei servizi
connessi.
Schmidt e il Codice Etico
Il Direttore degli Uffizi ha emanato una disposizione nei
giorni scorsi che richiama le famigerate previsioni del Codice Etico in materia
di rapporti con i media. Una disposizione inutile, in quanto già evidenziata
nel Codice Etico, e peraltro improvvida in quanto getta sale sulle ferite
aperte da disposizioni giudicate, non solo da noi, palesemente illiberali e
senza alcun riscontro giuridico rispetto alla normativa generale vigente. Resta
da chiedersi come mai il Direttore del più prestigioso museo italiano senta la
necessità di richiamarsi così tautologicamente alle controverse disposizioni.
Dalle vie brevi risulta esclusa esplicitamente e definita casuale la sequenza
temporale che vede queste disposizioni emanate subito dopo un articolo di
Tomaso Montanari sul curioso utilizzo del Cortile degli Ammannati per una festa
di “addio al celibato”, una vicenda, quella si, squalificante rispetto alle
modalità di utilizzo del nostro patrimonio culturale che lo vedono mortificato
e mercificato con eventi la cui natura è lontanissima da qualsivoglia progetto
culturale. Ma a noi interessa poco sapere il perché di questa decisione, in
questa sede rivolgiamo un accorato appello al Direttore Schmidt perché la
ritiri, perché non si nasconda dietro una norma antidemocratica.
Il diritto di critica deve essere garantito e non può
assoggettarsi a ridicole regole burocratiche: è un principio fondamentale della
nostra democrazia occidentale. Per questo la palla torna direttamente al Ministro,
perché questa vicenda del Codice etico investe direttamente le responsabilità
della Direzione politica del Ministero: siamo ancora in attesa di risposta
sulla squalificante vicenda del Polo Museale del Piemonte e con ogni
probabilità la risposta ce la fornirà il giudice. Ma il Ministero si è
arroccato dietro una indispettita attesa dell’esito di un contenzioso promosso
dai colleghi della UILBAC, e continua a ignorare la necessità di ridare al
Codice quello che è il suo ruolo, ovvero uno strumento di contrasto efficace e
reale ai fenomeni corruttivi e di mala
gestione, non certo uno strumento antidemocratico di controllo dell’eventuale
dissenso verso le scelte gestionali.
Assmann e il diritto di
critica
Sempre in relazione al diritto di critica i lavoratori del
Museo di Palazzo Ducale di Mantova hanno
inviato una lettera alla Gazzetta di Mantova in risposta ad un intervento,
pubblicato sullo stesso giornale, palesemente denigratorio, scritto in difesa
del Direttore Assmann da un suo collaboratore, nel quale si evidenziava che le
critiche al progetto di gestione del Direttore erano essenzialmente dovute
all’inguaribile fannullonismo dei dipendenti. La lettera dei lavoratori è un
esempio di civiltà democratica nel rivendicare la dignità e la passione per il
lavoro svolto evidenziando, allo stesso tempo, il reale oggetto delle critiche
avanzate allo stile gestionale della Direzione del Museo, improntato su un
utilizzo molto disinvolto del Museo come mero spazio espositivo e senza alcuna
relazione con quello che il sito rappresenta sul piano storico-culturale. La
lettera ve la giriamo in visione, ad esempio di come la coscienza democratica
dei lavoratori serva ad alimentare il dibattito democratico e il diritto alla
critica ne sia l’elemento corroborante.
Claudio Meloni
FP CGIL Nazionale
allegato 1
Al Direttore della
“Gazzetta di Mantova”
Paolo Boldrini
Gentile Direttore,
in risposta agli articoli pubblicati sul suo giornale – con particolare riferimento alla
questione dell’interrogazione parlamentare e alla supposta “aria
nuova al Ducale” – e per maggiore chiarezza dei suoi lettori, desideriamo
esporre il nostro punto di vista su alcune delle questioni sollevate.
Innanzitutto la lettera che abbiamo scritto e di cui
sono stati pubblicati a nostra insaputa alcuni estratti, era indirizzata al
direttore del Museo Peter Assmann e non alla stampa. Ciò per motivi di
opportunità, nonché nel rispetto del nostro codice
disciplinare (che, in barba alla libertà di espressione ci vieta di comunicare
con gli organi di stampa). Senza dubbio i problemi e le criticità da noi
sollevati sono di pubblico interesse, avendo per oggetto un Museo Statale,
ovvero un bene comune che appartiene a tutti noi, in
quanto cittadini prima che dipendenti. E infatti, da una lettura integrale del
testo si evincerebbe che non è il nostro interesse ad essere al centro
dell’attenzione.
Le chiediamo quindi di poter correggere alcune affermazioni attribuibili in alcuni casi addirittura a persone
che hanno collaborato con il direttore, la cui “manifesta parzialità”
non decade certo con la fine della collaborazione (tanto più se gli eventi
divengono oggetto di un’interrogazione parlamentare al
ministro Franceschini).
In secondo luogo “guardare” sale che
custodiscono tesori quali Pisanello Mantegna Raffaello e Rubens non è guardare
qualcosa di irrilevante, ma una seria responsabilità, e tutelare l’incolumità
di questi beni preziosi è e rimane il nostro primo
compito. Nonostante il furbesco tentativo di ridurre la questione all’ennesima
lamentela dei dipendenti fannulloni, ci auguriamo che non sfugga il vero tema
che abbiamo voluto sollevare: l’uso che viene fatto di un monumento che appartiene alla collettività e che, come tale, ci sentiamo di dover
tutelare e preservare.
Affermare poi che il malcontento “ovviamente si
giustifica con l’aver aumentato i flussi turistici” è quantomeno
scorretto: primo perché il calo dei visitatori era principalmente dovuto al terremoto, e non ci ha certo fatto
contenti; secondo perché i flussi turistici sono aumentati, ma in linea con gli
anni precedenti il terremoto, soprattutto in considerazione della riapertura
della Camera
Picta nell’aprile 2015 e
della eccezionalità di Mantova capitale italiana
della cultura.
Non ci siamo permessi di dare giudizi sul valore
scientifico della “linea impostata” da Assmann. Ci siamo permessi
però di sollevare perplessità sullo spazio dato ai privati, a discapito del
bene pubblico (il nostro stipendio continuano a
pagarlo i cittadini, o meglio i contribuenti). Ammettiamo che ci riempirebbe di
orgoglio vedere il nostro Museo citato insieme a Louvre Prado o National
Gallery londinese, ma non ci risulta che la stampa nazionale né tantomeno internazionale abbia dato tale risalto alle
iniziative che portano la contemporaneità “dentro il Museo di arte
antica” (sic).
Questo Museo non è un contenitore vuoto da riempire,
ma è già pieno della sua storia e usarlo come “location” per qualsiasi cosa, pur di togliere la polvere in nome di una
supposta modernità, rischia di ridurlo a mero fondale – per quanto prestigioso
– e di farci dimenticare che chi viene per visitarlo cerca la magnificenza
gonzaghesca, non l’arte contemporanea.
“Costringere il
personale ad aumentare l’orario di lavoro” non è possibile (fortunatamente
e finché dura la resistenza agli attacchi ai diritti dei lavoratori). Il fatto
che tutte le attività si svolgano senza aggravio dei turni di lavoro non è una
concessione di Assmann: l’orario di lavoro è ancora
materia di competenza del ministero e ad oggi, non è stata delegata ai singoli
direttori. Tuttavia le iniziative del direttore sono state possibili grazie
alle ore di straordinario del personale. Retribuite, e ci mancherebbe altro. Ricordiamo che il personale del Museo, una
settantina di persone su tre turni di lavoro, garantisce l’apertura del Palazzo
undici ore al giorno, sei giorni su sette, tutto l’anno (ricordiamo che il
Museo apre dalle 8.15 alle 19.15, con frequenti
aperture straordinarie).
Non sono state aperte sale chiuse da decenni, ma è
vero piuttosto il contrario: l’arte contemporanea ha portato alla frequente
chiusura dell’appartamento di Isabella d’Este, dell’appartamento
dell’imperatrice, per non dire della mancata
apertura, già prevista prima dell’arrivo del direttore, dell’intera Corte
Nuova, ad esclusione dell’appartamento dell’Estivale, già oggetto di restauro
durante la soprintendenza della dottoressa Paolozzi Strozzi e destinato ad
ospitare i marmi di Vespasiano Gonzaga, e aperto
invece temporaneamente per lo show room di Agape. Sottolineiamo inoltre che la
chiusura di tali ambienti, parte del percorso di visita del Museo, è funzionale
all’uso del personale di custodia per la Galleria, spazio aperto a tutti gratuitamente e che ospita opere
private.
Annotiamo in calce un estratto dal discorso
pronunciato il 5 maggio del 2003 dall’allora Presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi, che ci conforta e ci gratifica.
Lettera firmata
[…]
“L’identità nazionale degli italiani si basa
sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che
non ha eguali al mondo. Forse l’articolo più originale della nostra
Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9
che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica
e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della
Nazione”. La Costituzione ha espresso come
principio giuridico quello che è scolpito nella coscienza di ogni italiano. La
stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare:
sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la
tutela, dunque, deve essere concepita non in senso di
passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei
cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti. Se ci riflettiamo
più a fondo, la presenza dell’articolo 9 tra i “principi
fondamentali” della nostra comunità offre una indicazione importante sulla
“missione” della nostra Patria, su un modo di pensare e di vivere al
quale vogliamo, dobbiamo essere fedeli. La cultura e il patrimonio artistico
devono essere gestiti bene perché siano
effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni.
La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza,
non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la
loro conservazione e diffusione. Lo ha detto
chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha
indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere
subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come
sigillo della sua italianità. La promozione della conoscenza, la tutela del
patrimonio artistico non sono dunque una attività “fra altre” per la
Repubblica, ma una delle sue missioni più proprie, pubblica
e inalienabile per dettato costituzionale e per volontà di una identità
millenaria”.