La legge di riforma dell’assistenza sanitaria in carcere risale al 1999; nove anni di mancata applicazione di una legge dello Stato dovrebbero indignare molto più della legittima decisione del Parlamento e del Governo di prevedere, finalmente, la sua definitiva applicazione.
Il rispetto della volontà popolare, esercitata su questo tema non solo attraverso l’emanazione di ben due leggi votate dal Parlamento, ma finanche dalla riforma del titolo V° della Costituzione, sembra essere, per molti, una variabile assolutamente indipendente, fino a giustificare alcune affermazioni dal senso profondamente comico che dipingono i Ministri della Salute e della Giustizia come prepotenti e frettolosi.
Il passaggio delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere dal Ministero della Giustizia al servizio Sanitario Nazionale è atto di grande civiltà: sancire l’universalità del diritto alla salute anche per le persone momentaneamente private della libertà personale è la più grande affermazione della supremazia dei diritti di cittadinanza sui bisogni di contenimento carcerario e definisce, per la prima volta, un quadro di responsabilità istituzionali sul carcere, più allargato, più democratico, più sinergico.
La riforma, quindi, va portata a compimento ed il servizio sanitario nazionale deve poter esercitare quelle competenze che universalmente garantisce e che tutti, comprese le organizzazioni sindacali dissenzienti sulla riforma, gli riconoscono o dovrebbero.
Diversa è la questione relativa al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con il quale si trasferiscono risorse economiche, umane e strumentali.
Strumentale e demagogico il rischio agitato rispetto ai possibili licenziamenti di 2500 lavoratori a tempo determinato e di quelli le cui prestazioni professionali sono legate a convenzioni con il Ministero della Giustizia; al contrario con il passaggio si realizzerebbero, innanzitutto, le condizioni per un miglioramento dei sistemi retributivi e dei diritti, oggi fortemente ridotti dalle convenzioni al ribasso previste dal Ministero della Giustizia, e potrebbe aprirsi in futuro anche un processo di graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro.
Così come inesistenti i rischi di una perdita di quote di salario nel passaggio da un contratto di lavoro (Ministeri) all’altro (Sanità): la bozza di DPCM non solo garantisce che ciò non avvenga, ma i lavoratori ai quali verrebbe applicato il contratto della sanità si vedrebbero riconosciute molte indennità operative, di rischio professionale e quote di produttività che oggi sono loro negate. Una serie di “finte” accuse che nascondono, purtroppo, posizioni di netta contrarietà ai principi definiti dalla legge di riforma, spesso animata da un bisogno di difesa corporativo molto forte nel sistema carcerario.
La Fp Cgil è, quindi, per l’immediata applicazione della legge 230/99; questo però non ci esime dal chiedere, così come stiamo facendo in queste ore che il DPCM venga emendato in alcune sue parti, prima fra tutte quella che non prevede l’esercizio del diritto di opzione da parte dei lavoratori.
Chiediamo che la conferenza delle Regioni fissata per domani valuti le richieste dei sindacati ancora non soddisfatte e che trasmetta al Presidente Prodi una bozza di DPCM più vicina agli interessi dei lavoratori e dei cittadini ristretti e che, infine, sin da subito apra un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali su tutte le questioni collegate al lavoro sanitario nelle carceri a cominciare dai rapporti cd. precari e dai vincitori di concorsi già espletati per infermiere professionale nell’ambito penitenziario.
Roma 19 marzo 2008